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EDDIE VEDDER - Lettere Dal Fondo Del Mare, da Jam di giugno

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Red Mosquito
view post Posted on 6/6/2011, 10:05




Articolo principale della cover story di jam di giugno


EDDIE VEDDER - LETTERE DAL FONDO DEL MARE
di Claudio Todesco

Alla fine Eddie Vedder ha scritto il suo "Blood On The Tracks". Il suo album del divorzio. Si chiama "Ukulele Songs" ed è interamente suonato col piccolo strumento hawaiano. Sono lettere dal fondo del mare piene di dolore e afflizione. Ma pure di sentimenti di rinascita. E ci illuminano su chi è oggi il cantante dei Pearl Jam



L'ha trovato in un negozietto delle Hawaii. Usciva da una bottiglieria con due casse di birra e si era seduto ad aspettare un amico. Ha alzato gli occhi e l'ha visto nella vetrina di fronte: una piccola cassa in legno, quattro corde, un manico ridicolmente corto. Un ukulele tenore Kamaka. Tenero e buffo. Pratico e apparentemente facile. L'ha comprato. Si è seduto per strada e s'è messo a strimpellare, gli occhi sulle corde. Ha rialzato lo sguardo quando ha sentito delle monete tintinnare nella custodia dello strumento. Un paio di turisti l'avevano scambiato per un musicista di strada e gli avevano lasciato un dollaro e mezzo. Eddie Vedder non aveva bisogno di spiccioli: aveva bisogno di una nuova casa spirituale.
Gli anni 90 erano al tramonto. Con una band in lotta per mantenersi viva dopo aver messo alle spalle il successo di massa, quello che «ti porta in alto come una scala per il paradiso, ma quando oltrepassi le nuvole ti guardi intorno e ti accorgi che sei solo», il cantante dei Pearl Jam era pronto a ridefinire la propria identità d'artista. Dopo avere combattuto per ridare un cuore e un'anima al rock, si apprestava a ingaggiare un nuovo tipo di battaglia: la ricostruzione di un sentimento di appartenenza. Prima di farlo doveva passare attraverso un divorzio, quattro dischi coi Pearl Jam, centinaia di concerti, nove ragazzi morti sotto i suoi occhi, decine di migliaia di chilometri, un matrimonio, due figlie. Là in fondo, dove le esperienze s'accumulano e diventano arte, ad aspettarlo c'era il mito romantico della libertà totale e della sintonia spirituale con la natura - non una novità per uno che ha scritto le prime canzoni coi Pearl Jam praticamente sull'acqua e iniziava i concerti con un pezzo intitolato Oceans. Questo soffio vitale ha preso forma prima nella colonna sonora del film di Sean Penn Into The Wild, dove i pensieri di Christopher McCandless si sovrapponevano a quelli del giovane Vedder, e ora nella raccolta di canzoni più semplici e tristemente romantiche che il cantante dei Pearl Jam abbia mai pubblicato, una parabola emotiva che passa dal dolore alla liberazione.
Una dozzina d'anni dopo, quel primo incontro con l'ukulele assume i contorni dell'epifania. Perché il disco che Eddie Vedder manda in giro è quasi interamente suonato con quello strumento: Ukulele Songs, 9 canzoni nuove, 4 cover, un rifacimento dei Pearl Jam, uno strumentale. Forse nemmeno lui immaginava che i bozzetti strimpellati con quel piccolo strumento sarebbero diventati un album. Li aveva già messi in fila, ma solo per la gioia degli amici. A quanto pare è stato il campione di surf Kelly Slater a suggerirgli di pubblicarli. E poi, come ha detto al Chicago Tribune, «queste canzoni le mettevo da parte da almeno dieci anni, era tempo di far pulizia e fare spazio in casa a nuovi inquilini». Dentro c'è lo spirito dell'Eddie Vedder folksinger. C'è un clima insolitamente rétro. Ci sono sentimenti di smarrimento e solitudine. C'è del romanticismo e c'è del dolore. Molto dolore. C'è l'esigenza di fare musica con la naturalezza e la confidenza che in un palasport fatalmente svaniscono. Ci sono sabbia e acqua.
C'è il mare anche sulla copertina del dvd dal vivo che esce contemporaneamente all'album. Water On The Road, si chiama: un uomo rema su una distesa d'acqua verde e blu.
Non è a bordo di una barca: di un ukulele.


La cerimonia si è svolta sull'isola di Oahu. Fra i 70 invitati, il musicista Jack Johnson, gli attori Tim Robbins e Sean Penn, il surfista Laird Hamilton e fidanzata, la modella e pallavolista Gabrielle Reece. Danny Clinch, regista del documentario sui Pearl Jam in Italia Immagine in cornice, ha scattato la foto ufficiale: il cantante bacia la sposa sulla spiaggia, in un gesto di plateale romanticismo. Alcune immagini di quel giorno appaiono di sfuggita nel video di Longing To Belong, la canzone scelta per lanciare Ukulele Songs. Sono abbinate a riprese di grandi onde e di alberi mossi dal vento. «Il mio cuore è una ferita aperta che tu sola puoi mettere a posto», canta Vedder, e davvero è facile confondersi su questo desiderio d'appartenenza: è riservato a una donna o alla natura? Forse non c'è differenza: le due cose s'intonano.
Il matrimonio del settembre 2010 con Jill McCormick è solo uno dei risvolti del rapporto sempre più intenso di Eddie Vedder con le Hawaii. Ha preso casa nelle Neighbor Islands e vi passa parte dell'anno. Contribuisce ad alcune associazioni locali non profit. Lì anni fa ha conosciuto il tastierista aggiunto dei Pearl Jam Kenneth "Boom" Gaspar. E lì va a fare surf: è entrato nel «cerchio magico» di Slater, tramite lui ha conosciuto Jack Johnson e la sua famiglia, ha frequentato la comunità di North Shore, l'area nell'isola di Oahu nota per le onde gigantesche. Esattamente come Johnson, Vedder è uno che incastra nell'immaginario e nella pratica quotidiana surf e musica. Note e accordi sono onde e le onde diventano musica. Ogni cosa viene dall'acqua, ha detto. Anche le Ukulele Songs sembrano provenire da lì. Sono lettere dal mare. O meglio, dal fondo del mare. «Quando mi sento esausto, senza energie e interessi, non devo far altro che andare sull'acqua per qualche giorno, magari per un mese: mi ricarica». Basta confrontare una foto di Eddie Vedder al microfono coi Pearl Jam e una con l'ukulele scattata da Danny Clinch: non è il rocker che trascina ed eccita 15 mila fan, è una persona che cerca di comunicare con una persona alla volta. Come quando va a fare surf a Waimea Bay, nel North Shore: le onde arrivano a cinque, sei metri, e «se ne fregano di chi sono». In quei momenti non è il cantante dei Pearl Jam. È Ed, uomo, maschio, 46 anni, più un pizzico di Crazy Eddie, il ragazzo sconosciuto che nell'estate del 1990 faceva pazzie girando lo Yosemite National Park con Jack Irons e Flea dei Red Hot Chili Peppers.
Non è difficile comprendere il sentimento di vicinanza provato dal musicista nei confronti di quelle isole, un pezzo d'America nel Pacifico: in fondo ha passato buona parte della sua vita a cantare la forza salvifica della natura. Lì, lontano dal «rumore bianco» delle città, s'incontrano idealmente l'eremita di In My Tree, l'autostoppista di Thumbing My Way, il fuggitivo di Gone, il surfer di Amongst The Waves e naturalmente Christopher McCandless. Solo che i sentimenti che Vedder rappresenta oggi sono meno estremi dei loro. Ma la natura resta il posto dove l'anima è salva: lì «sei più vulnerabile ai sentimenti e alle emozioni, apprezzi maggiormente la vita». Lì si va in cerca della verità. Lì ci si sente vivi.
Non stupisce che Vedder abbia fatto sue le parole dell'inno ambientalista Hawaii '78 reso famoso da Israel "Iz" Kamakawiwo'ole, tra le cui manone l'ukulele sembrava un giocattolino: «Cosa penserebbero della nostra terra i nostri re e le nostre regine se per un giorno potessero visitare queste isole? Riesci a immaginare cosa proverebbero trovando autostrade sulle loro terre sacre?». Quella canzone, secondo Vedder, fa parte dell'atmosfera del luogo. Fa parte delle isole. «Quando sei sulla tavola o stai facendo un'escursione», ha detto a un giornale locale, «nelle orecchie risuona quel tipo di roba. In un certo senso, Israel Kamakawiwo'ole è diventato per me la voce delle isole. È come se ci fossero degli altoparlanti tra gli alberi che suonano Brother Iz tutto il tempo».
Forse il complimento più grande gliel'ha fatto Boom Gaspar: sei sicuro, gli ha detto, di non essere stato un hawaiano in una vita precedente?


Non è una coincidenza se Vedder ha trovato un ukulele alle Hawaii. Deriva dalla braguinha o machete de braga, un piccolo cordofono portato sulle isole dagli immigranti portoghesi provenienti dall'arcipelago di Madeira. Un giornale dell'epoca lo descrive come «una specie di incrocio fra una chitarra e un banjo». Era il 1879 e i portoghesi arrivavano a centinaia, e poi a migliaia, per lavorare alle piantagioni di canna da zucchero. Nel giro di tre anni tre di loro, Augusto Dias, Manuel Nunes e Jose do Espirito Santo, avevano creato l'ukulele: si erano basati sul machete e avevano cambiato materiali (usarono il legno di koa tipico del luogo), accordatura, tipo di corde, dimensioni. Dieci anni dopo il loro ukulele era diventato uno dei simboli delle isole. Lo scrittore Jack London, in visita alle Hawaii, lo vide e lo definì «una giovane chitarra». Era perfetto per accompagnare lo stile hapa haole, le canzoni che magnificano le bellezze del posto interpretate in inglese con alcune parole hawaiane. Le dimensioni ridotte, il fatto di essere uno strumento non intimidente, la maneggevolezza e la relativa facilità nell'approccio - facile da strimpellare, ma in realtà difficile da suonare bene - assicurarono il successo immediato anche negli Stati Uniti dove fu introdotto alla Panama-Pacific International Exposition di San Francisco del 1915. Negli anni 20 e 30 ebbe una fiammata di popolarità: era «l'iPod dell'era del jazz». La Martin produceva più ukulele che chitarre. Ma a parte un revival negli anni 50, in qualche modo è rimasto lì, una stranezza di un'epoca passata, un oggetto inutile per fare grande musica - quattro corde, un cassa di risonanza troppo piccola, un'estensione di due ottave - anche se alcuni grandi chitarristi lo hanno suonato in gioventù, da Jimi Hendrix a Eric Clapton.
Strumento esotico, giocattolo, stramberia: nell'immaginario collettivo l'ukulele è un'estrosità da negozietto di antiquariato. Forse è per via di alcuni musicisti cui lo si associa: l'attore britannico dell'epoca del music hall George Formby e il folksinger americano Tiny Tim che lo strimpellava con aria stralunata e un falsetto ironico nella sua versione del vecchio pezzo di Broadway Tiptoe Through The Tulips. Pochi l'hanno preso sul serio: lo si considera adatto a una citazione ironica o a un intrattenimento leggero. Per lo meno fino a quando è stato rivalutato da musicisti di spessore come, di recente, dal fenomenale Jake Shimabukuro. Ma a ridare popolarità allo strumento è stato Kamakawiwo'ole. Il suo semplice, incantevole medley di Somewhere Over The Rainbow e What A Wonderful World del 1993 ha riscattato lo strumento scoprendone il lato serio, persino "spirituale". Da allora molti musicisti, anche importanti, l'hanno imbracciato: ieri Paul McCartney l'ha usato per rendere omaggio all'amico George Harrison che lo usava «con gioia», secondo la testimonianza di Tom Petty; oggi viene usato da personalità dell'underground, da Merrill Garbus dei tUnE-yArDs a Stephin Merritt dei Magnetic Fields. Ma anche da Jack Johnson, da Sara Watkins dei Nickel Creek e da Dan Zanes, ex Del Fuegos, che li costruisce pure. Era evidente in uno dei grandi successi del 2010, Hey, Soul Sister dei Train. Amanda Palmer dei Dresden Dolls ha momentaneamente lasciato il pianoforte per incidere un album di cover dei Radiohead suonate all'ukulele. «Rappresenta l'opposto della grande, lucida macchina dell'industria discografica», ha spiegato la cantante al New York Times. Il carattere "povero" dello strumento e la sua totale mancanza di pretenziosità s'adattano bene alla grammatica essenziale del nuovo rock indipendente, alla sua ricerca di innocenza. Essenzialità e marginalità. E democratizzazione: con una spesa modesta (rispetto alla chitarra) ci si porta a casa uno strumento di buona qualità. Oggi ci sono festival dedicati all'ukulele e interi gruppi ad esso devoti. In passato si sono cimentati in tanti, da Elvis Presley a Elvis Costello. Anche Bruce Springsteen l'ha portato nel tour di Devils & Dust: un modello regalatogli da Eddie Vedder. «L'ukulele» suggerisce la Continuum Encyclopedia Of Popular Music Of The World curata da John Shepherd «può essere considerato un strumento egalitario grazie alla suonabilità e alla relativa semplicità nel costruirlo». Per il pubblico occidentale «racchiude dal punto di vista sonoro e visivo uno stile di vita e un'atmosfera che possono sperimentare solo indirettamente attraverso il turismo di massa. Un ukulele o la registrazione di un ukulele può essere una proiezione o un memento di uno stile di vita idealizzato di un luogo remoto».
Può essere anche uno strumento rock. In un'intervista al New York Times Vedder ha detto di avere voluto «lottare» con lo strumento per cavarci fuori qualcosa di inusuale. S'è fatto aiutare da Joel Eckhaus, un musicista e liutaio del Maine proprietario della Earnest Instruments. Già studente del «mago delle corde» Roy Smeck che l'ha introdotto ai segreti dello strumento, nel '98-99 Joel ebbe l'idea di costruire un «ukulele rock'n'roll» con la forma di una Fender Telecaster. Era nato il Tululele. «La cassa» mi racconta Eckhaus «è piccola e sottile, e ha un buon suono, come quello di un ukulele soprano (il più piccolo: gli altri tipi sono da concerto, tenore e baritono, in ordine crescente di grandezza, nda). Ho aggiunto un pick up semplice ed economico, che non snatura il suono. Eddie l'ha visto su una rivista chiamata Ukulele Collectable, uscita solo in due numeri. Sul primo c'era un articolo su di lui e uno scritto da me su Roy Smeck. C'era anche una pubblicità della Earnest Instruments col Tululele: è lì che Eddie l'ha notato. Me ne ha commissionato uno nero che somigliasse alla sua chitarra (la Telecaster con la freccia che usa spesso in concerto, nda). La persona che gli gestisce gli strumenti mi ha contattato per commissionarmelo. Ho costruito per lui altri due ukulele: uno l'ha regalato a Bruce Springsteen per il suo sessantesimo compleanno». Vedder voleva un tenore con un trasduttore Fishman: Eckhaus gliel'ha costruito col corpo in frassino e il manico in acero. «Ho incontrato Eddie a Boston: mi ha invitato a vedere il concerto sul palco. Ha suonato un pezzo da solo con l'ukulele. Emozionante». Il Tululele è protagonista di Can't Keep, che apre Ukulele Songs e che oltre ad essere stata rifatta dai Pearl Jam era emersa in una versione solista lievemente diversa all'interno del dvd Burn To Shine. Per Eckhaus è «un pezzo interessante sulla vita, la morte, e quel che ci lasciamo alle spalle. Lui non è un virtuoso, ma non hai bisogno di esserlo per accompagnare il canto: basta un po' di ritmo e una progressione armonica. Ma Eddie ha uno stile e un groove personali».
Secondo Eckhaus, «l'approccio all'ukulele è facile, il che lo rende adatto ai novizi e a chi non ha grande esperienza con la musica. Ovviamente per via delle dimensioni, dell'estensione e dell'accordatura, è uno strumento più limitato della chitarra. Ma se pensate che sia facile, provate ad ascoltare James Hill, John King, Azo Bell, Benny Chong, Jake Shimabukuro, Del Rey o Brian Hefferan, per citare alcuni dei miei preferiti. La sua dimensione non ne sminuisce il ruolo nella storia della musica della penisola iberica e delle sue colonie. Ci sono altri strumenti piccoli, il timple, il machete, la braguinha, la vihuela. Sono stati portati in giro per il mondo e si sono ritagliati uno spazio nelle tradizioni musicali di Africa Occidentale, Azzorre, Capo Verde, Canarie, Centro e Sud America, Caraibi, Pacifico meridionale, Nord America, Giappone, e di ritorno in Europa». E oggi? «L'ukulele è la novità del momento: tutti vogliono provarlo, il che spiega la rinnovata popolarità». La gente che lo suona, dice Eckhaus, resta sorpresa dall'accordatura rientrante: la quarta corda può essere accordata sul Sol alto e non sul Sol basso come ci si aspetterebbe se le corde fossero accordate in ordine decrescente. «È quel che sfida la gente a tentare cose differenti, aumenta le possibilità armoniche, melodiche e ritmiche. Per me, l'accordatura rientrante è quel che definisce l'ukulele. Ha una voce e una tessitura inusuali. È stato popolare negli anni 20 e di nuovo nei 50, in una sorta di revival sentimentale. La sua attuale popolarità ha a che fare piuttosto col folk contemporaneo in tutte le sue incarnazioni. Lo senti in molte pubblicità, di questi tempi. È diventato hip: va bene se vuoi suonare eccentrico, un po' fuori, sardonico, figo... o semplicemente musicale».
Per dirla con Shimabukuro, l'ukulele è uno strumento di pace: «Se tutti lo suonassero, il mondo sarebbe un posto migliore».


Com'è che un disco suonato con uno «strumento di pace» inizia con una canzone sul suicidio?
La risposta è in un passaggio del dvd Water On The Road, quando Eddie Vedder imbraccia l'ukulele e racconta brevemente il suo approccio allo strumento, la sua volontà di fare «soffrire con me questo strumento piccolo e naïf, rendendolo minaccioso e triste». La prima parte di Ukulele Songs è effettivamente una via crucis di mestizia, delusione, solitudine. La seconda parte somiglia maggiormente all'immagine che si ha dell'ukulele: uno strumento di semplice, pratico, soave intrattenimento. Ma nel suo complesso Ukulele Songs è il disco di un uomo in crisi. Di un uomo che fa i conti con un divorzio.
Vedder aveva pubblicato un pezzo per ukulele già nel 2000, in Binaural dei Pearl Jam. Soon Forget era un primo tentativo di avvicinarsi allo strumento, il ritratto impietoso della solitudine di uno dei tanti milionari della new economy che abitavano le ville di Seattle e dintorni. Quei 2 minuti scarsi erano modellati sui profili di Bill Gates e Paul Allen, ma in realtà erano un monito del cantante a se stesso, a non farsi soffocare dal benessere economico. Vedder stava imparando e per scrivere la canzone si era ispirato palesemente a Blue, Red And Grey degli Who di metà anni 70, verosimilmente una delle prime volte in cui aveva sentito un musicista rock (Pete Townshend) suonare l'ukulele. «Ho imparato molto sulla musica suonando quella macchina da songwriting in miniatura», ha detto di recente al Chicago Tribune, «specialmente per quel che riguarda la melodia. Il motto è: meno corde, più melodia».
Da allora lo strumento è apparso fra le sue mani in vari concerti della band («Non mi fa sembrare più alto?»), fino a diventare un amico buffo e "animato": eccolo la prima volta in un'arena (di Verona), la prima volta in Svizzera, in una sala d'opera, ecco le presentazioni al pubblico («Ukulele, ti presento Cincinnati. Cincinnati, questo è Ukulele»), le battute (giacché Tony Iommi avrebbe scritto all'ukulele tutti i pezzi dei Black Sabbath, «qui si sta portando avanti una tradizione del rock'n'roll»). Da qualche parte il cantante ha anche giurato di aver sentito lo strumento implorarlo: «Suonami! Suonami!». I siparietti solisti all'interno dei concerti dei Pearl Jam si sono trasformati negli anni successivi in una sporadica, ma intensa attività di folksinger in occasioni benefiche o in rally politici. È nel 2002 che emergono le prime tracce delle Ukulele Songs di oggi: Can't Keep, Satellite, You're True, Broken Hearted, Longing To Belong, pure la cover di Sleepless Nights degli Everly Brothers con Beck (oggi con Glen Hansard di Frames e Swell Season). Nella colonna sonora di A Brokedown Melody apparirà anche Goodbye, una versione dall'interpretazione vocale lievemente meno carica di quella odierna. In sostanza, una parte significativa dello scheletro di Ukulele Songs era pronto nel 2002. Che cosa provocò questo diluvio di canzoni meste e solitarie?
Vedder non ha voluto farsi intervistare per questa cover story, né ha mai parlato dell'argomento. Ma ad ascoltare i testi e il tono dell'album, e a ripensare a quando i pezzi sono stati composti, è evidente che le «canzoni all'ukulele» sono state influenzate da quel che accadeva nella vita privata del cantante all'epoca: il divorzio dalla prima moglie Beth Liebling formalizzato nel settembre 2000. L'evento lo ha «devastato» (la definizione, rara, è sua) ed è arrivato nel periodo del dramma di Roskilde. Forse Ukulele Songs è un divorce album come lo furono in modi differenti Blood On The Tracks di Bob Dylan, Tunnel Of Love di Bruce Springsteen o per certi versi Sea Change di Beck. Sia chiaro: la corrispondenza fra arte e vita privata non è mai scontata. Raramente è perfetta. La musica trasfigura la realtà: sono pochi i dischi realmente diaristici. Ma di sicuro si può dire di Vedder quel che fu detto del Dylan di Blood On The Tracks: «Ha preso il mare in tempesta e l'ha messo in un bicchiere». Che sia un resoconto fedele dei sentimenti provati dopo la separazione o che sia letteratura solo basata su quei fatti, Ukulele Songs s'inserisce idealmente nello spazio fatto di smarrimento, delusione e desolazione interiore fra la fine di una relazione e l'inizio di un'altra. Abituato a inanellare frasi ellittiche e immagini oscure, Vedder si scopre un po' di più, pubblicando i suoi testi più semplici, diretti e privi di mistero. Quasi una registrazione non edulcorata della propria afflizione. Ukulele Songs è un disco monotematico, un concept sentimentale (ma non svenevole): è la prima volta che Vedder dedica tante canzoni al tema dell'amore, e in modo tanto diretto dopo aver passato una vita a evitare la tematica più scontata della storia della canzone americana, o comunque ad affrontarla in modo trasfigurato - un orrore per chi considerava sdolcinati già i versi di Wishlist, 13 anni fa. Fatto sta che le prime 7 canzoni dell'album, tutte autografe, danno voce alla sofferenza, ai pensieri, alla dolorosa intensità di un uomo che guarda in faccia il dolore della separazione. Non c'è poesia, è quasi cronaca: «Avrei dovuto saperlo che c'era qualcun altro / Ma l'ho sempre tenuto per me, nel profondo», canta l'uomo di Sleeping By Myself. Non sarà più la stessa persona: resterà per sempre «triste e solo». Il tintinnio di Without You gli risponde che «continuo a curare le ferite che ci siamo fatti fin dal primo momento» e che «per ogni desiderio che non è stato esaudito, c'è un sogno che ho fatto su di te». Che sia nel giusto o meno, l'uomo continua a pensare a lei «più di quanto tu sappia» (More Than You Know). E confessa: «Sto piangendo». Chi è l'oggetto di tanto amore? In Goodbye Vedder fa trapelare un indizio. Canta che «abbiamo vissuto assieme metà della nostra vita» e che «100 anni sono un fardello pesante da portare»: lui e Liebling erano sposati dal 1994, ma erano assieme dagli anni della gioventù, un fatto che il cantante sottolineava con piacere quando veniva messo di fronte al fascino esercitato sul pubblico femminile. Goodbye è anche la canzone del distacco e dell'accettazione: «Immagino che questo sia un addio». Il protagonista col cuore spezzato di Broken Heart non elemosina comprensione, chiede un po' di solitudine. Riconosce le ragioni di lei, ammette che la donna potrebbe avere fatto qualcosa che non intendeva fare, ma oramai è troppo tardi: lui sta mettendo da parte l'amore per un'altra persona. Sta «cercando la luce» dentro di sé: «È accesa ma fioca». Ed eccola la luce che arriva prima con le dichiarazioni d'amore e profonda appartenenza di Longing To Belong, poi col riff alla Pinball Wizard e con l'immagine di picchi solitari e cascate di You're True. È una nuova storia: «Improvvisamente sono come un neonato e sono pronto a vivere un po' con te: c'è così tanto da fare». E poi l'illuminazione di Light Today: «Oggi ho visto la luce», ripete Vedder come un mantra enunciato per fissare un attimo di consapevolezza esistenziale. «Sanguinerò, ma non mi spezzerò»: la guarigione è completa.
Sono canzoni di profonda afflizione. Di crisi. Nate in uno dei periodi più bui dell'età adulta di Vedder. Non è mai stato così richiuso su se stesso. Così solo. Ed è appropriato che queste parole siano accompagnate dal suono dell'ukulele. L'isolamento come cifra stilistica. Ma queste sono anche canzoni di rinascita. Il riscatto è nei testi. È nella voce di Vedder, che rende importanti anche queste canzoni da 2 minuti e mezzo, che dà un senso profondo anche a parole elementari: è una voce che vibra di vento, di sabbia, di acqua. Di vita.
Il disco virtualmente finisce dopo la rivelazione estatica di Light Today. Da quel momento l'amore è cantato attraverso cover, testi e melodie del passato, non più con le parole dell'artista (Waving Palms è un brano autografo, ma è strumentale). Vedder non sceglie canzoni recenti: le pesca da un tempo remoto, come se volesse collegarsi a un immaginario pre rock'n'roll romantico, arcaico, puro, non becero. «Sono tutte buone canzoni da fare con l'ukulele», mi dice Eckhaus delle quattro cover. «Tonight You Belong To Me fu registrata dal grande bassista e ukulelista jazz Lyle Ritz per Lo spaccone». In una scena del film (1979) il protagonista Steve Martin la suona all'ukulele con Bernadette Peters: Vedder riprende quella versione scegliendo come partner Cat Power. «Once In Awhile e Dream A Little Dream sono entrambi successi degli anni 30 perfetti per l'ukulele. E la musica degli Everly Brothers suona benissimo con questo strumento: Sleepless Nights è bella e ammaliante, ed è adatta allo stile vocale di Eddie».
Ma anche quelle canzoni, per quanto soavi, evocano sentimenti agrodolci. Uno «strumento di pace» diventa uno strumento di tormento. C'era del sangue nei solchi di Bob Dylan di metà anni 70. C'è del sangue nelle Ukulele Songs di Eddie Vedder.


Un tempo cantava di modelle come di «stronze carne e ossa». Quando ne arrivava una nel backstage, la prima moglie urlava allarmata «Modelle! Modelle!» come se stesse annunciando la calata dei barbari: alla fine lui ne ha sposata una, e ci ha fatto due figlie. Ingaggiava una lotta furibonda e quasi fatale col colosso Ticketmaster: ora sono loro a vendere i biglietti dei suoi concerti. Si rifiutava di girare videoclip come un indiano d'america che non vuole farsi fotografare per non perdere l'anima: oggi non c'è album suo o dei Pearl Jam che non sia accompagnato da un filmato. Si batteva perché i prezzi delle t-shirt del gruppo fossero accessibili: oggi l'iscrizione al suo fan club costa 50 dollari. Non scriveva molte canzoni d'amore: ora ci ha fatto un album intero.
Assorbito il tormento degli anni 90, messa a tacere la furia politica degli anni della presidenza Bush, negli ultimi tempi Eddie Vedder sembra comporre da una nuova prospettiva. Nella prima parte della sua esistenza ha cantato con grande profondità che cosa si prova ad essere figlio: di un padre che non conosci; di un patrigno che ti fa del male; di genitori che se ne fregano di te; di chi ti abusa; figlio di una società ingiusta; di un governo truffatore; di un mondo profondamente ingiusto; di un'economia che corrompe l'arte. Oggi non è più un figlio: è un padre. Diceva che la musica che conta scaturisce dal dolore e dall'alienazione: oggi è un uomo risolto.
Roger Daltrey usava salutarlo con l'espressione «Sii felice». Vedder ha finalmente compreso l'importanza di quella frase: ha accettato l'idea che essere felice non sminuisce la sua rettitudine, né inquina la sua musica. Forse non vive l'arte con l'intensità sovrannaturale di un tempo. Con quella sofferenza. Con quel tormento. Ma ci è passato attraverso e li può rappresentare. E per scrivere attinge ai ricordi e alla permanenza di certi stati emotivi. È la sfida di Vedder per il nuovo decennio: scrivere musica rilevante attingendo un po' meno all'esperienza, un po' più alla consapevolezza e ai ricordi.
Per ora c'è riuscito. Il suo Into The Wild non era solo il ritratto musicale di un estraneo dalla storia drammatica e affascinante: traeva la sua forza dal ricordo di quella stessa bruciante diversità che Vedder aveva vissuto quand'era più giovane. Oggi, marito e padre appagato, pubblica un disco sulla devastazione derivante dalla fine del suo matrimonio di una decina d'anni fa. Gli piace citare una frase di Bonnie Raitt: «Posso ancora scrivere canzoni blues perché rammento ogni cosa».
Quattro anni fa Eddie Vedder ha scoperto Google Earth, il software che permette di girare per il globo e di fare zoom vertiginosi passando da una città all'altra. Una delle prime cose che ha fatto è stato il balzo da Seattle, Washington, a North Shore, Hawaii. Sono 4 mila chilometri, 6 ore di aereo. Ma anche 10 anni di vita, 2 matrimoni, 36 minuti di canzoni strimpellate all'ukulele.
 
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fran altereddie
view post Posted on 6/6/2011, 10:29




CITAZIONE
"(...) uomo, maschio (...)"

Abbia pazienza Todesco, mi sono fermata quì.
 
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Anthony Lizardhands
view post Posted on 6/6/2011, 12:56




Francamente, sui PJ ed EV, Todesco ha scritto pagine decisamemte migliori di questa: credo che stavolta fosse un pò "impreparato" ma il pezzo abbia dovuto metterlo assieme lo stesso.
Due cose su tutte:
1) penso che Roskilde abbia inciso molto più del divorzio;
2) la lunga tiritera sulla storia dell'ukulele mi sa di quando mi interrogavano su una cosa che non sapevo e per allungare il brodo parlavo di qualsiasi cosa
 
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jeff7
view post Posted on 6/6/2011, 13:11




Beh, questo articolo occuperà almeno 4 pagine sulla rivista, e non avendo un'intervista si è dovuto inventare qualcosa, direi.
Personalmente lo trovo un pò supponente nei toni, del genere "ragazzi ora vi spiego io la musica che voi non ne capite una cippa".
Credo non ci siano molte informazioni in giro relative al suo divorzio, di conseguenza immagino che questo legame con l'album sia una supposizione di Todesco (per altro ben argomentata). Ma non sono comunque del tutto convinto, trovo un pò strano pubblicare testi simili. Ma, ovviamente, è solo un mio parere :)
 
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Frank Gibson
view post Posted on 6/6/2011, 20:16




io mi son fermato al titolo
 
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fran altereddie
view post Posted on 6/6/2011, 21:57




CITAZIONE (Frank Gibson @ 6/6/2011, 21:16) 
io mi son fermato al titolo

:lol:
 
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iMazza
view post Posted on 6/6/2011, 22:30




Alla fine Eddie Vedder ha scritto il suo "Blood On The Tracks"

che è come dire

"Un giorno Todesco verrà erroneamente scambiato per Nick Kent"

 
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fran altereddie
view post Posted on 8/6/2011, 08:09




CITAZIONE
«Tonight You Belong To Me fu registrata dal grande bassista e ukulelista jazz Lyle Ritz per Lo spaccone». In una scena del film (1979) il protagonista Steve Martin (...)

naturalmente è "Lo Straccione".

e io sono pedissequa, lo so, però l'ho letto tutto :D
 
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docG
view post Posted on 8/6/2011, 10:03




CITAZIONE
e io sono pedissequa, lo so, però l'ho letto tutto

:lol:
 
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fran altereddie
view post Posted on 8/6/2011, 10:53




approfitto per aggiungere che penso si tratti di canzoni scritte molto tempo fa e tirate fuori adesso.
e che EV ha detto, qualche intervista fa, che il film con Steve Martin non c'entra una nespola :D


CITAZIONE
Q&A with Ed Vedder | Uncut, 06.08.2009

Is it true that you recorded an albums worth of ukulele songs back in 2000? Do you plan to ever release them? - Scott Kobleske, Chicago

I did record it and gave it to a few friends. I was going through a rough time – it was after Roskilde [the Danish festival where, in 2000, nine Pearl Jam fans were trampled to death in a stage crush] and after a number of things in our personal lives. And this tiny little instrument with four strings, which could almost fit in your back pocket, became like a good friend. The uke is an incredible machine for learning about melody and chord structure – you're suddenly able to write ragtime classics! So I wrote these sad songs on a happy instrument. It helped me process some really painful things at the time, but I didn't want to release it because it felt too personal. It's funny now, with some distance, they're not as heartbreaking as I thought. So…it may get released. We'll see.

 
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9 replies since 6/6/2011, 10:05   517 views
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